Era una notte come tante. Il sole era calato da un pezzo. Per strada, i lampioni innaffiavano l’asfalto con una tenue luce arancione, appena sufficiente per concedere al passante di distinguere il contorno della sua figura. Potevo udire soltanto il rumore cadenzato delle mie scarpe contro il suolo, e il mio respiro, leggermente accelerato. La via, stretta e deserta, era attraversata solo da una gelida tramontana, che sferzava senza tregua il mio viso nudo. Ero ben coperto, ma questo, al freddo, non importava: facendosi beffa dei miei pesanti indumenti, il gelo raggiungeva lo stesso mio corpo, entrando da ogni spiraglio possibile, da ogni fessura non coperta, creando canali d’aria dal nulla, come attratto da una forza invisibile e nascosta che lo conduceva presso di me. Per un attimo, ebbi la sensazione che la nuvola grigia sopra la mia testa, fatta di elucubrazioni su quanto facesse schifo la mia vita, di borbottii incessanti riguardanti la mia totale incapacità nel trovare persone e situazioni giuste, di giudizi sul fatto di aver allontanato chi in realtà non meritava, si fosse dissolta. Fu, appunto, solo un attimo: il freddo che sentivo sulla pelle e nelle ossa non riusciva a distrarmi dal ghiaccio che avevo nell’anima.
Dopo tanto pensare, ancora non so spiegarmelo, questo nucleo di ghiaccio al mio interno. Forse la precoce perdita di mio padre, forse il distacco forzato dai miei fratelli, il tutto in un’età in cui è difficile comprendere certe cose. Forse le mie prime esperienze con le donne, da cui ho imparato quanto sia difficile capirsi davvero, condividere davvero. Forse la mia eccessiva sensibilità di base, che nel confronto con una realtà dura e complicata, ha dovuto lasciare il posto a lati più aggressivi e competitivi del mio essere. E, forse, anche il fatto di vivere in una città impossibile come Roma.
Ma è davvero necessario conoscere la vera causa del mio malessere? Cosa concluderei? Arriverei a una qualche forma di guarigione? O forse potrei soltanto constatare con rammarico che la mia storia non può essere cambiata, e quindi che non posso cambiare nemmeno io?
Il clacson forte e insopportabile di un’auto vicina mi riportò bruscamente alla realtà. Imboccai rapidamente una strada e in un attimo mi infilai dentro casa. Intorpidito dallo sbalzo termico e con gli occhi gonfi, sbrigai subito le ultime faccende prima buttarmi nel letto, coccolato da un morbido e piacevole abbraccio di coperte. Mi ero torturato abbastanza, per quella giornata, e finalmente il fastidio cronico che mi portavo dietro andava spegnendosi. Forse, domani… chissà.
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Categorie: - Me stesso
In quel buoi pesto, riuscì a scorgere un’ ombra. Non la riuscivo a vedere né sentire. Eppure il grido d’aiuto che mi chiamava, era terribilmente forte, straziante. Così mi avvicinai e cercai di capire cosa fosse. Era una ragazzina. Sembrava così fragile, così inerme. Muta, non sputava una sola parola.. il suo volto, il sto sguardo dicevano tutto. La portai a casa mia non so come. Non le dissi niente, ci eravamo capiti e basta. Un tazza di te. “chi sei?” le chiesi. “non sono più nessuno, e forse non lo sono mai stata. Vivo di abusi, minacce in una famiglia che non è la mia. Mi prostituisco per del pane. Ho solo 15 anni. La mia famiglia è da qualche parte che mi cerca, ormai saranno 4 anni dalla mia scomparsa. Non posso andare a scuola. Non so chi sono. Una stupida 15enne”. Il sto volto cambiò espressione. Un sorriso, di pochi secondi. Mi straziò. Ero inerme. Scappò, cercai di raggiungerla ma non ci riuscì. La notte, quanti pensieri, quante domande. Tra queste la più ricorrente: perché ho pensato di avere dei problemi? Perché sono stata così egoista nel pensare che i miei problemi venissero prima di tutto? Così mi addormentai con la consapevolezza che la vita non è stata poi così crudele, che posso, che devo smettere di pensare ai miei problemi. Quella sera, mi bastò per capire che aiutare gli altri, anche solo ascoltarli per ricevere un sorriso, fosse la cosa più bella al mondo.