Senza fine
Imago mortis.
In te si specchia la mia anima
che non vuole più saperne di soffrire.
Amare, sperare, desiderare,
e poi
desiderare, sperare, amare
e quindi
soffrire, soffrire e soffrire
senza che si palesi una degna fine.
Certo dimentichi di Dio
vaghiamo senza senso e senza posa
come cani randagi.
“Figli del caso e della pena”
solo qualche lirica ancora ci tiene in vita
e ci sostiene.
E voi “coraggiosi” ani-mali
se ancor vi piace esser brutali
potete cominciare a scendere le scale fino al davanzale
dove potrete ammirare
i frutti del vostro “slancio vitale”:
i vostri figli che in processione
cercano di uscire dalla vostra colpevole devastazione.
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Categorie: - Cultura
Già… non sono sicuro di aver colto al 100% il significato di questa poesia (poichè sono sempre stato uno zuccone in materia) però quello che (credo) di aver capito (ma soprattutto “sentito”, poichè le parole in determinate combinazioni toccano l’inconscio di ciascuno di noi come un arpista fa vibrare le corde di un’arpa) descrive molto bene lo zeitgeist attuale.
Complimenti.
Ricordo un Provenzan che poetizza con questo stesso stil, seppur con canoni amorosi, più lacrimanti ma non così diversi.
Io francamente tra quelle righe i riferimenti persi, ma quell’imago mortis molto mi disse sul valor dei ponderosi versi.
Se al Boccaccio noi vogliamo offrir consesso, e poetar rimando col nome di casata ci fosse oggi concesso
per dar consiglio a chi si cre’ poeta, direi che a chi di nome ha la ventura di fare pure Rega,
meglio che al legnam offrisse il proprio tempo, e quelle man dedicasse alla sega.
Qui si dimostra l’importanza della rima poetica…
Emilio,
a me è piaciuta, salvo il passaggio che porta al davanzale. Non so perché ma lì sento qualcosa che stride, anche se ne comprendo la necessità per la rima.
Scusa il senso critico, del tutto personale.
“Vernacolier labronico diedeci insegnamento, per dedicar la nota a chi Calliope pasce, per vivere nel tormento, pure se lo rinasce, poi chè straziato verbo fa di poesia ambasce.
Niun sottrarsi può, a satira e poi al memento, che fanno le parole, con grande accoramento, se queste poi dimoran sul ventre, sul momento.
Serve per arangiar allo poeta il tiro e migliorare così le ambizion e ‘l miro. Perché nel verseggiar o in prosa, un’certa cosa è dire, ma ancora lo più importante è quella di ‘sentire’.
Non sol q’el vien di ‘dentro’, dove che sia riposto, ma quel che l’omo volgo, dopo aver letto ha posto.”
Da “Del vulgare l’eloquentia” di
Prendente Aligoggi
Grazie white knight, il tuo apprezzamento mi ha fatto molto, molto piacere. Anche il riferimento al mondo dei suoni credo che sia molto azzeccato. Effettivamente il mio modo di scrivere non è mai pour parler ma nasce da un’esigenza intima di venire a capo di un tumulto interiore, di pensieri che si accavallano e che si contraddicono alla ricerca di una soluzione il più possibile armoniosa e coerente. Spero che ci siano ancora occasioni affinché il nostro dialogo possa proseguire. Ciao Emilio