Un mio collega, già peraltro impelagato in un pesantissimo stage di WBP (Web-Based Psycoempaty) presso lo studio di una nota esperta del settore, aveva promesso di sacrificare un po’ del suo tempo libero e di accompagnarmi con il suo scooter al processo, e ci incontrammo a pranzo.
Appena seduti, accennò alla corposa nota protocollata che avevo in mano col sorriso mellifluo di chi sta imparando a empatizzare proattivamente.
«Ah, Yog, non si legge a tavola».
«Sì. E tua cognata non dovrebbe zoccolare».
Per un attimo si tastò la barbetta, a disagio; contrariamente alle sue abitudini, non si era fatto la barba. «Perché mi tratti così, Yog?».
«Perché molto del materiale contenuto in questo dossier è stato scritto evidentemente da qualcuno che di questa storia conosceva poco. Che ne pensi? »
«Ah, il memoriale». Sembrò imbarazzato. «Quello lo hanno commissionato a un investigatore di mezza tacca».
«Chi è?».
«Era il prezzolato di quelli che ti hanno messo nei guai… fino al momento di saldare il conto all’agenzia investigativa. Allora litigarono. Il memoriale alla fine gli fu pagato, ma non venne utilizzato subito. Non era il momento ».
«Dov’è adesso quell’investigatore privato? È in città? ».
«Può darsi».
«Vorrei fare due parole con lui».
«Del processo non saprà niente, Yog».
«Mi piacerebbe lo stesso fare due parole con lui».
«Può darsi che lui non ne abbia la minima intenzione».
«In tal caso me lo dirà. Tu mi hai assicurato che puoi aiutarmi, anche perché stai diventando un professionista in tecniche di manipolazione empatica sul web. Ecco un’occasione».
Si agitò sulla sedia, scontento « Ti prego, Yog. Vedo di doverti spiegare meglio come stanno le cose». Abbassò la voce. «Tu non capisci. Non sei il primo a essere finito nella rete, naturalmente. Adesso altri sono in libertà, ma sono altamente sospetti. Sarebbe molto imprudente avere rapporti con lui. Il gioco non vale la candela».
«Non c’è bisogno che gli parli di persona. Basta che gli recapiti un messaggio da parte mia. Chiedigli di chiamarmi sul cellulare, dagli il numero».
Sospirò. «D’accordo, Yog. Ma credo che non servirà a nulla ».
Sventolai il dossier «Questo non è il caso di portarlo con noi, vero? Lo lasceremo al mio studio andando in tribunale e ne approfitterò per darti una vcard da passare a quell’investigatore privato. Gliela recapiterai in giornata»
Si succhiò le labbra. «Vedo che non ti fidi di me, Yog» disse.
«Che vuoi dire?».
Capì giusto in tempo che non era il caso di contrariarmi. « Va bene, tutto okay» rispose.
Prese il dossier. «A proposito,» dissi «questo a cosa si riferisce?». Gli indicai un appunto scritto a matita.
Gli diede un’occhiata stanca. «Oh, questo, Yog, » disse esaminandolo svogliatamente «non è nulla, qualcosa annotato lì senza legami con il resto dell’incartamento».
E difficile che una persona riesca a fregarmi una volta che so che si sta occupando di psicoempatia web-based. Il mio collega, quando applica le sue tecniche, si tradisce con un tic dello zigomo destro; un moto muscolare inconsapevole, a scatti.
L’aula del tribunale della mia città era stata ritenuta troppo piccola per un processo mediatico di tanto rilievo. Si era scelta perciò la navata centrale del duomo, un edificio gotico in pieno centro, sconsacrato e locato alla Pubblica Amministrazione appena tre mesi fa, dopo l’ultima spending-review avviata dalle istituzioni ecclesiastiche postconciliari.
Alle pareti, decorate per secoli da importanti tele, erano ora appesi una serie di poster: alcuni pubblicizzavano la novella teoria gender; altri, più distanziati, inneggiavano alla repressione del femminicidio specie se compiuto allo scopo di reprimere l’innato istinto femminile all’omicidio stradale. Sopra e ai lati dell’altare maggiore i drappeggi di due coperte sottratte simbolicamente ai profughi attestati sugli scogli di Ventimiglia celavano (ma, molto accortamente, non del tutto) un crocefisso che non era stato ancora possibile rimuovere. Appuntati qui e là c’erano degli avvisi che vietavano di fumare sotto minaccia di punizioni esemplari impartite da (seguiva uno spazio bianco). Alcuni confessionali erano stati insonorizzati per ospitare gli interpreti che dovevano doppiare su You Tube in tempo reale gli spezzoni delle varie fasi del procedimento. Sulla maggior parte dei capitelli di altissime colonne, fissate con una carpenteria metallica evidentemente improvvisata, c’erano grosse lampade alogene puntate sull’altare maggiore per illuminarlo a beneficio degli operatori televisivi delle principali reti del Paese. Accanto alla postazione dei giudici, ai due lati dell’altare maggiore, presso le acquasantiere, di fronte all’organo settecentesco, dietro le porte e sotto ogni poster pubblicitario erano piazzate delle guardie private: tutte armate di pistoloni di calibro adeguato, tenuto non nella fondina ma in pugno. Sul web i meglio informati avevano anticipato che quando si fossero rese pubbliche le prove contro il criminale Yog, la gente avrebbe potuto tentare di appenderlo al primo albero prima che fosse fatta giustizia.
L’ex chiesa era affollata e alla stampa estera era stata riservata un’intera navata laterale. I primi banchi erano occupati da professionisti della web-communication. Sul ripiano davanti a ogni banco si potevano trovare auricolari con la possibilità di selezionare dodici lingue europee e otto lingue asiatiche, oltre che una copia, in questo caso anche in dialetto napoletano, toscano e medio-padano, dell’atto di accusa. Dietro i giornalisti diverse file erano contrassegnate da vistosi cartellini con delle sigle, che evidentemente corrispondevano ad altrettante organizzazioni umanitarie legate al mondo dell’assistenza psicoempatica web-based. Gli occupanti, tutti fregiati di apposita coccarda, vestivano dimessamente ostentando la propria umiltà e si comportavano nel modo più empatico possibile; in una fila c’era un gruppo di web-designer che sembrava reduce dalla premiazione dell’ultimo MacchiaNera Award 2015.
L’aspetto delle ultime file era diverso. Qui i posti erano riservati a gente rigorosamente anonima immersa nel deep-web, troll, nick-doppelganger, sedevano assorti e accigliati o conversavano sottovoce, seri seri, con i vicini. Consci di essere ripresi da una pletora di smartphone, ci tenevano a mostrare di essere lì per caso, e non come diretti interessati. Faceva freddo, e gran parte delle donne e molti uomini avevano quel tipo di cappotti di lana a spenti toni di grigio che viene solitamente chiamato gomery di Monti o, più concisamente, gomery.
Verso le quattordici e trenta altri riflettori posti sulle colonne si accesero e cominciò il ronzio delle pompe di calore. Le navate furono percorse da un brusio di aspettativa; poi, mentre facevano lentamente ingresso i tre giudici in toga nera e parrucca candida, tutti si alzarono. I giudici andarono ai loro posti dietro l’altar maggiore, ma rimasero in piedi fino al termine dell’inno trionfale suonato sull’antico organo da una virtuosa quindicenne leggermente strabica. Tutto poteva curiosamente ricordare una messa cantata. Anche il sussurrio che si diffuse quando ci risedemmo era familiare. La differenza fu che il rito penitenziale non ebbe affatto luogo, ma qualcuno si alzò e chiamò il mio nome, e tutti gli occhi si volsero ai battenti della porta della sacrestia, davanti ai quali sostavo in placida attesa. Poi ci fu silenzio, rotto solo dal rumore delle pompe di calore e dal sordo ronzio dei rumori del traffico cittadino.
Sostai un attimo, immobile, battendo le palpebre abbagliate dalle luci dei riflettori. Due guardie in divisa erano venute ad affiancarmi; giovani alti e prestanti che avrebbero potuto altrimenti fare carriera in un call-center. Un bacile di argento mi rimandava, deformata, l’immagine del mio viso grigio e scarno, gli occhi infossati e i capelli stanchi. All’inizio del processo ero ancora di corporatura massiccia, ma ora avevo le spalle curve e parevo ingobbito. Non sapevo dove tenere le mani e lo sguardo che volgevo attorno doveva senz’altro sembrare alquanto incerto. Una guardia mi toccò il braccio e io andai verso l’altare salendo su un gradino molto ampio. C’era una sedia con la seduta di velluto rosso a coste, ma preferii rimanere in piedi guardando i poster alle pareti. Credo di avere sorriso. Infilai le mani nelle tasche. Poi, dopo un ossequioso cenno del capo a ciascuno dei giudici, mi risolsi a sedermi e chiusi gli occhi.
L’atto d’accusa pubblicato elencava diciotto capi d’imputazione. Ero accusato (in particolare al capo numero cinque, ma la stessa accusa era ripresa in altri due capi) di essermi « arrogato diritti cospirando con utenti reazionari per far sì, in vista di personali vantaggi sociomediatici e d’altro genere, che il sito fosse occupato da truppe di commentatori poco o punto empatici».
Altre accuse riguardavano attività denigratorie, uso indebito di ironia graffiante nei post, e complotti per eliminare utenti in odore di diventar moderatori. Disseminati in tutto il documento c’erano oscuri accenni a «vari complici», «noti disturbatori», «troll prezzolati », «lotta di capoclasse» eccetera; la litania dell’«arrogante avocazione di diritti» ricorreva con l’insistenza del va e vieni delle fotocopie fronte-retro in una macchina Xerox. Era evidente che l’atto d’accusa era un documento pesantemente artefatto. Di fatto diceva, o sperava di dire: «Ecco un nick a cui si possono muovere seriamente accuse simili»; e: «Le imputazioni sono tante che di qualcosa dev’essere pur colpevole ».
Il sostituto procuratore conduceva personalmente l’accusa. Era un’autorità in questioni di diritto penale, e si era sempre occupato per lo più di cause di questa natura. Aveva grande esperienza di dibattimenti in tribunale. Gracile, ma d’aspetto pugnace, con un gesticolare fluido (“flou” direbbe il mio collega) e il vizio di mangiarsi le unghie ogni pochi secondi, sembrava preoccupato più di sostenere la sua tesi con efficacia che difendersi da tacce di prepotenza. Fece pedissequamente riferimento all’atto ufficiale d’accusa e si concentrò su due sole imputazioni. Se riusciva a provarle, o a far mostra di provarle, sarei stato inevitabilmente condannato per tutte le altre in blocco. Questa, almeno, era la mia impressione. Fin dalla lunga relazione introduttiva adottò fini machiavellismi, convincenti in modo assai sottile, che comprendevano anche argomentazioni estremamente ragionate. Gli interpreti chiusi nei confessionali traducevano con voce calma, tanto meglio in quanto non erano distratti dalla vista dell’oratore.
Quel giorno uscii dal duomo-tribunale in una singolare condizione di spirito. Come se avessi assistito al film Interstellar, che a me non era piaciuto più di tanto, per poi scoprire che a tutti gli altri era piaciuto immensamente. In una sala adiacente alla sacrestia era stata installata la conferenza stampa; il mio collega (nonché trasportatore di persone a mezzo scooter) si fermò a prendere il bollettino ufficiale degli atti della giornata. La stanza era affollata e lo aspettai alla porta. C’erano vari armadi e stipi, contrassegnati ognuno col nome di un prete che evidentemente lì – fino a qualche tempo fa – custodiva le vesti per il Sacro Ufficio. Mentre aspettavo vidi un tipo allontanarsi furtivo. Lo avevo già notato prima senza riuscire a situarlo. Quando giunse alla porta ci trovammo faccia a faccia. Mi fece un cenno di saluto e io ricambiai. Era un piccolo uomo di creta.
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Categorie: - Amore e relazioni - Riflessioni
Rossana è questo l’outing? Sono curiosa… 🙂 Ormai è diventato un divertimento!
Un abbraccio
YOG. Lo voglio su manoscritto, autografato.
Ho lottato due anni per avere gente così qui.
Potrò morire, sbriciolato (ovviamente) in mille pezzi, ma finalmente felice.
Fantastico!! No non l’avevo visto ovviamente, devo ringraziare la vestale rossaniana che è intervenuta all’uopo.
Yog. Hai la mia più sincera ammirazione. Onorato di essere a te assimilato. Io, piccolo, insignificante uomo di creta.
Valida, una delle caratteristiche degli outing è di palesare realtà dirompenti tenute nascoste fino al momento fatale in cui erompono. Quello che (non) hai letto è un pezzo narrativo decente che trae spunto da una certa atmosfera che si respirava su LaD tempo addietro, ma – ahimè – non è un outing. Deliziosa la tua curiosità, mi ricorda quella di molte protagoniste femminili delle commedie del Goldoni.
Valinda,
è diventato un divertimento anche per me… ma è bene che resti riservato, di modo che, non essendoci mai conferme, non possano esserci nemmeno smentite 🙂
abbraccio ricambiato, con l’augurio di buona settimana.
Yog, le comari ci sono, il cortile pure e le baruffe non mancano. E’ il risultato che è diverso. Tragicomico quello descritto da Goldoni, patetico in quello di LaD.
Questo passa il convento.
Yog, hai la capacità di unire intelligenza, sagacia e ironia in un solo utente. e questo è un talento raro. ti rinnovo il mio invito a non sparire un’ altra volta. questo posto ha un disperato bisogno di gente come te! La tua lettera me la salvo sul pc. e un giorno sono sicura che qualcuno ( forse io stessa ) ti chiederà i diritti d’ autore per riportarla nei suoi racconti 🙂
Valida ?… mmmmm, non credo…… 😀
Mmmmmmm, gli scherzi del correttore automatico!!! Davvero un bel cortile questo, tutte dicono di divertirsi molto e io ne son ben contento. L’importante è che non spunti dietro l’angolo della fattoria la massara con sottobraccio il libro dell’Artusi… una vera barbarie! Se si legge l’Artusi si finisce con il diventare vegani. Dico davvero. E’ un libro intriso d’olio extravergine dal quale gronda sangue innocente. MG, io faccio come i granchi: se le acque si intorbidano, dò due colpetti e mi insabbio. Anche gli struzzi ci provano, ma scavare è una gran fatica…
Invece credo che il correttore abbia visto giusto. Manca il punto interrogativo alla fine.
Però, visto come amano il gossip. Vere intellettuali.
Esiste in salentino una battuta su quella attitudine di imboscarsi, che viene utilizzata quando si vuole evitare noie.
“‘Ncul diss u caurr! E si nascose nell’anfratto scoglioso per difendersi dal marosi il vile crostaceo”
(“U caurr” è il vile crostaceo in argomento.)
La massaia con l’Artusi sotto il braccio è qui da illo tempore. Ma non le riesce una ricetta.
@Golem So cosa è un caurr, ma che vuol dire “ncul”?
Sissì, la valida gossipara mi ha davvero deliziato. Tanto che nel commento nulla dice e manco si rivolge a me, ma chiama direttamente in causa la sua sodale. Con allusiva strizzatina d’occhio. Deliziosamente comaresco, quasi cosa d’altri tempi. Cose che non vedo più manco dal balcone del mio laido monolocale di Quarto Oggiaro, che pur si affaccia su un sozzo cortile. Una ventata di nostalgia per gli anni che sono corsi via… Dum fugit interea, fugit inesorabile tempus.
Mi è mancato un apostrofo perché fosse più chiara l’esclamazione popolare con la quale il pavido crostaceo decideva di evitare saggiamente lo scontro con i marosi : “N’cul!”. Mancó, forse come a te mancó una N nella citazione della ri-nomata comare. Chissà.
Ma se mi è consentito, come fai a conoscere un termine come ” ‘o caurr ” così connotato dal punto di vista glottologico? Sei forse anche tu mediterraneo geneticamente?
Nostalgia. Sì, a volte ne sento il bisogno anch’io. LaD per fortuna aiuta a superare certe nostalgie della nostalgia.
Anche se io la definirei meglio come “Nostralgia”. Un ircocervo di etimo latino-greco che mi sembra più indicato nel caso specifico.
“Quarto Oggiaro non amour “. Forse il prossimo film di Wim Wenders ci riporterà al fascino di quei “cortili”.