Quando ero piccolo io, a Natale mangiavamo pasta in bianco e un brutto panettone, mezzo storto perché mio padre lo prendeva sottocosto direttamente in fabbrica, allo spaccio: per renderlo più accattivante stendevamo parecchio zucchero a velo. Un velo pietoso.
In TV dicevano che tutti a Natale mangiano i muffin e il pan pepato, per noi il muffin non era nient’altro che un velo biancastro maleolente che copriva le arance abbandonate in frigorifero da settembre. L’otto dicembre si approfittava che tutti andavano a Messa per l’Immacolata per appropriarci di un piccolo abete che il vicino di casa aveva piantato la primavera prima e di un presepe carino che le suore allestivano presso un capitello dedicato a San Crispino, di quelli con tre buoi e quattro asinelli e io a chiedermi come mai in Palestina ci fosse tanta abbondanza di armenti mentre nella stalla di mio nonno ci si doveva accontentare al massimo di una mucca tautologicamente grassa come una vacca.
Il presepe, in realtà, mi ha sempre portato verso l’insanità mentale. Mia madre non se ne capacitava, sembrava Salvini, sempre a chiedermi ossessivamente Epperché stai a fissare gli immigrati, No, mammete, sono i magi e usano i cammelli, Appunto, replicava lei, i barconi del deserto. Non mi attizzava per niente, e qui lo dico e qui lo nego. Godevo invece ad osservare le lucette sui rami finti del piccolo albero di Natale. Immaginare che tra gli aghi appuntiti si nascondesse il virus Ebola, sognare un mondo infetto, ma silvestre. Un minuscolo universo sanitario, pieno di medicinali e di presidi farmaceutici.
L’abbondanza, oltre che di lucette a led prodotte in Cina dalla miglior infanzia di Nanchino, di paccottiglia prodotta dalle vecchie che svernavano in parrocchia e di fave dei morti vendute sottocosto perché erano avanzate dal Giorno dei Morti, era persino commovente. Mio padre si lavava per l’occasione con delle candele colorate che scambiava regolarmente per saponette profumate. Nessuno, dalle mie parti, sapeva neanche cosa fosse davvero una saponetta profumata.
Dopo aver consumato la pasta in bianco si giocava a tombola, specie mio nonno che al secondo bicchiere di grappa si schiantava sul pavimento della cucina, sopra resti di cozze e pesce fritto rimasti lì dalla Pasqua precedente. La tavolata allora smetteva di essere chiassosa e si tirava una pagliuzza per decidere chi avrebbe chiamato il 118. Che nostalgia!
Ci sentivamo veri. Un po’ veri. Diciamo poveri, ma questo lo avrei capito sul serio solo diventando adolescente.
Del Natale mi sarebbero piaciuti anche i regali, ovviamente. Che scomparivano magicamente dalla casa del vicino la notte del 24, senza che lui, per quanto si sforzasse di stare all’erta, riuscisse mai a cogliere sul fatto il misterioso Babbo Natale che, invece di portargli gli anelati pacchetti, gli faceva sparire anche l’argenteria . Era una specie di miracolo, inspiegabile e un pelo imbarazzante. Come, del resto, quella pantomima familiare in cui mio nonno – di solito abbastanza sobrio a dispetto dei volumi di alcol ingeriti – si pettinava la barba sparuta per gonfiarla e consegnava i pacchetti ai bambini, spaventando i più grandicelli con le sue crisi di grande male e mettendo fuori gioco i più piccoli con il suo foetor haetilicus. Babbo Natale, quello vero, non si faceva vedere da nessuno. Tanto meno dal mio vicino. A casa nostra, mio nonno passava soltanto molto tardi, e soltanto dopo che aveva visitato la casa accanto.
Ho saputo molto dopo che i miei genitori mi avevano concepito in autobus mentre si recavano ai docks del porto vecchio, nella zona della chiesa del Santissimo, a comprare a prezzo buono i giocattoli che arrivavano dalla Cina con le navi container per poi rivenderli a prezzo maggiorato a qualche sciroccato che cadeva nel tranello; tra i miei primi ricordi ci sono infatti anche dei finti Monopoli prodotti in Romania, con la valuta (i soliti 4 pezzi azzurri, marrone, verdi e rossi) denominata in “lei”. Un gioco intramontabile.
Quasi tutti gli anni andavamo a messa di mezzanotte verso le tre di notte. Prima di uscire nella cisterna di nebbia dell’hinterland, io indossavo un maglione di Missoni che il mio vicino di casa aveva comprato l’anno scorso, di quelli con tante sfumature pastello, un paio di anfibi di cuoio nero e una sciarpa di lana che usavo anche come fazzoletto da naso. Era bello credere in qualcosa, avere fede, non avere paura. In pochi passi ci accorgevamo subito che la chiesa aveva i portoni sbarrati, ma non era certo colpa nostra se avevano già chiuso.
Quest’anno mi fa davvero voglia il pandoro. In chiesa ci entrerò di sicuro, magari quando non c’è nessuno seduto tra i banchi. E mi verranno le lacrime agli occhi quando affonderò la mano nella cassetta delle offerte, ma il pandoro mica te lo regalano. Mi incanterò davanti al mio albero di Natale, sperando che il vicino – che da un pezzo non pianta più conifere – non venga a reclamare il suo pero. Penserò alla mia infanzia, alla pasta in bianco e a mio nonno che non c’è più, consumato dalla cirrosi. Al bambino che ero, e al poveraccio che sono. Penserò ai nipoti piccoli del vicino ormai scomparso, a quando saranno grandi e ricorderanno questi anni lontani come quelli in cui sparivano misteriosamente i loro pacchetti. Sentirò mescolarsi nel mio cuore sangue venoso ed arterioso, la qual cosa è molto peggio del mescolarsi di angoscia e commozione, ma come ogni volta che viene Natale io mi sento stranito, e aspetto con ansia il suo passaggio.
Chi lo sa se al Santissimo, nella zona del porto vecchio, vendono ancora giocattoli cinesi. Quest’anno, ai figli di mio fratello, che – lui non lo sa – non hanno neanche una goccia di sangue in comune con me, regalerò come strenne delle strane renne. Di plastica, 20 cent l’una. Ma il Babbo Natale finto no, quello non passa più.
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Categorie: - Me stesso
Commovente…
Non ho nostalgia dei Natali passati perché non essendo sposata tendo a vivere questi giorni di festa, più o meno, con lo stesso spirito. Non mi lamento insomma. Quando i miei fratelli si sposeranno ci saranno cambiamenti più significativi ma sono preparata all’idea di non dover dipendere da nessuno. Credo nella parità ma resto fedele allo schema tradizionale perché sono convinta che la maturità nell’uomo sia una fase passeggiera. Li devi prendere per tempo… conoscersi a vent’anni è già abbastanza tosta. L’integrazione è regressione… il ragazzo che cerca di entrare in una comitiva tende a spersonalizzarsi. Si tratta di un’opinione. Non è mia intenzione offendere nessuno, tanto più che mettendomi in discussione rischio di apparire ridicola, salvo poi esserlo per davvero: questo non l’ho ancora capito. Infatti il 99% delle donne si vedrebbe accanto ad un uomo capace di tenergli testa. Ti dico che quando m capita di restare qualche giorno con mio fratello si alza per prepararmi il caffè e siccome non lo beve butta regolarmente la sua tazza… lo fa con una tale disinvoltura che mi ci sono voluti degli anni per realizzare che lo butta per non farmelo bere. “Mi guarda” come dice mia madre e questo per me è un uomo… la vita coniugale non è semplice per una donna. Se mio fratello “mi guarda” io guardo tante altre cose in un uomo perché la violenza passa anche dalla cattiveria con la quale viene accolto uno sfogo. Portare avanti una famiglia, badare alla casa e lavorare non è semplice. Per adesso non ho nessuna responsabilità ma ad una donna in procinto di sposarsi consiglierei di non sottovalutare la serietà, la pazienza e la lealtà dell’uomo che dovrà essere il suo compagno di vita. Anche il tatto è importante.
Dunque Rossella. Ehm. Ok, ok, ok. Rispiegami ‘sta storia del caffè, forse sono vicino all’illuminazione.
mirabile prosa di un uomo che ha capito PERFETTAMENTE la natura dell’ utente medio di LAD… altra lettera yogghiana da salvarsi sul pc 🙂
Io non ho per niente nostalgia dei natali passati…
Se natali si possono chiamare…e non solo perché la mia è la classica famiglia che quando si incontrano finisce sempre in casino litigi e si lanciano i piatti addosso…oppure mia cugina sempre ubriaca che si incastra nella vasca da bagno..
Ma gli ultimi natali che ricordo…ricordo solo sofferenza e disperazione…in cui non avevo nemmeno più la percezione che era natale…
Cose troppo gravi da dire…
Vorrei dimenticarli…come vorrei dimenticare più della metà della mia vita…
“L’uomo che buttava le tazze”. Un titolo che sarebbe piaciuto a Raymond Carver.
Salvato!
Non il post, Golem. Il titolo. Devo conoscere assolutamente il fratello di Scarlet. E la cugina di Sofia. E la cognata del puritano che non ricordo il nome. Ti do un altro titolo in cambio: ” Il figlio del toponomasta”.
Ormai so come verrai chiamato continuando con questo metodo dissacratorio che sta minando alle basi LaD religione del forum:
Yog “Lapo stata”.
(Matteo Cerci era uno dei nomi del puritano in “in cognata”)
Yog, ne propongo uno anch’ io: la porno-psico nonna…