La mia memoria è nelle strisce sottilissime delle bucce delle patate. La mia memoria è l’assenza totale di spreco, il riciclo ossessivo: il fondo del caffè messo nei vasi delle piante, i magri avanzi di cibo abilmente ricomposti il giorno successivo, i vestiti cuciti in casa, rammendati allo sfinimento.
La mia memoria è qualche parola in tedesco, parole di comando e di fame: “Schnell”, “Raus”, “Kartoffeln”.
La mia memoria è una coperta di lana grezza, ruvida e rigida, con una grande stella al centro. Da bambina la detestavo, perché era pesantissima e al contatto con la pelle sembrava carta vetrata. Era anche brutta: vecchia, stinta, con un colore indefinito tra il grigio e il verde. Spesso mi domandavo perché ancora la utilizzassimo in casa: chiaramente andava buttata, era un oggetto vecchio e scomodo.
Alle mie poteste, un giorno, mi risposero con un racconto.
Era l’autunno del 1943 e mio nonno non aveva ancora compiuto vent’anni. Dalla Val Tidone era stato spedito a Predazzo, in Val di Fiemme. Mio nonno Franco era un vero asso nello sport e in particolare nello sci: spericolato, amante della velocità, aveva scelto di prestare il servizio militare obbligatorio nella Scuola Alpina della Regia Guardia di finanza.
Nonostante la guerra in corso, per i giovani allievi la vita scorreva in una bolla senza tempo, tra l’addestramento e le gare sulla neve, le scalate e l’alpinismo. Su uno sfondo indefinito, lo sbarco alleato in Sicilia e i fatti del 25 luglio.
Il 9 settembre del ’43 la loro vita cambiò irrimediabilmente. Fu l’inizio di un viaggio al quale pochi sopravvissero, di una lenta morte per fame e malattia oppure, per i superstiti, di un ritorno stigmatizzato e faticoso, dove nello spazio politico non c’era posto per loro. Gli internati IMI.
La mattina del 9 settembre le SS fecero irruzione nella caserma di Predazzo e la scuola di Passo Rolle, disarmando gli ufficiali e gli allievi dell’esercito italiano, i nuovi nemici. Messi velocemente su camion, trattati con estrema durezza perché considerati traditori, gli italiani furono stipati su treni merci e spediti oltre le Alpi.
Come un serpente velenoso, il treno sgusciava sui binari di morte attraversando le montagne, le belle valli della Germania, sempre più lontano, verso l’ignoto.
Chissà cosa si domandava mio nonno, quali muti interrogativi leggeva negli sguardi spalancati dei suoi compagni e amici, senza immaginare la destinazione che li attendeva: il famigerato campo di lavoro STALAG 307, amorevolmente chiamato “la fortezza della morte”, nel forte polacco di Deblin. Specializzazione: lo sterminio dei prigionieri di guerra. Si stima un numero di circa 120.000-150.000 vittime.
È lì che mio nonno arrivò e visse per i successivi due anni. Vide amici morire di tifo, si ammalò a sua volta e sopravvisse per miracolo. Fu lì che patì la fame, il freddo, i parassiti sulla pelle. Lì subì il trattamento preferenziale riservato agli italiani, i traditori, ai quali i pacchi della Croce Rossa venivano confiscati in barba alla convenzione di Ginevra. Lì fu soccorso dalla pietà e dalla bontà dei prigionieri russi, gli unici a condividere sottili bucce di patate con quei poveri italiani così vessati, che mangiavano ormai anche paglia ed erba.
Io penso che fu la sua incommensurabile forza di volontà a salvarlo nell’anno e mezzo di prigionia, mentre dimagriva fino a 39 kg i polmoni gli bruciavano senza tregua e non so per quale destino fu risparmiato dalle siringhe di veleno che venivano iniettate nelle braccia scheletriche dei malati di tifo, ammassati nel forte di Balonna, adattato ad ospedale.
Finché un giorno il campo fu abbandonato dai soldati tedeschi, mentre le fosse comuni rimanevano mezze aperte. Arrivavano gli americani. Chissà che viso aveva, come si chiamava il militare USA che coprì mio nonno con la coperta grigia, ruvida, con una grande stella al centro, se sorrideva o piangeva guardando il giovane scheletrito che aveva di fronte.
Il resto è presto detto: il ritorno in Italia durò mesi, a piedi o con mezzi di fortuna, seguito dal ricovero in un sanatorio per i polmoni compromessi e la denutrizione.
Ma il ritorno alla vita fu ben più difficile, per le sigmatizzazione che per anni è durata verso i prigionieri italiani, i cosiddetti “IMI”, ai quali molti rimproveravano la mancata a partecipazione alla Resistenza.
Mi chiedo, a parte l’oggettiva impossibilità fisica a partecipare ai gruppi partigiani, quale resistenza fu più dura di quella dei prigionieri nei campi di lavoro e di sterminio, e cosa dovessero ancora dimostrare al mondo dopo aver resistito per vivere, per ritornare e costruire una vita piena, appunto più consapevole per il fatto di aver vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra e la spietatezza dei nazisti. Una vita da cittadini onesti, generosi, che hanno tramandato alle generazioni successive il ricordo. Insegnando a non sprecare il cibo, a pelare le bucce di patate in strisce sempre più sottili. E anche ad una coperta di lana grezza, ruvida e rigida, con la quale avvolgere i nipoti, che sembra carta vetrata sulla pelle e con una grande stella al centro.
Bellissimo intervento. 🙂
Importante onorare queste testimonianze di persone innocenti che hanno vissuto questo orrore, che sembra così lontano da noi e così crudele per essere accaduto davvero..non bisogna dimenticare
Bellissima testimonianza, che fa riflettere su altre prospettive.
Erika,
molto bello il tuo racconto, che rivela dettagli non sempre noti e degni di essere tenuti in considerazione/memoria.
Scrivi così bene che potresti tentare la strada del giornalismo, se già non l’hai fatto.