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Lettera pubblicata il 24 Settembre 2007. L'autore ha condiviso 4 testi sul nostro sito. Per esplorarli, visita la sua pagina autore chillido44.
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Margot: ciao cara, ora vado di fretta ma ripasserò dopo se riesco con più calma. Conosco la paura dell’abbandono e sono contenta che tu abbia percepito che il mio non era nè un rimprovero nè un attacco, ma una riflessione con te proprio su questa paura. Che talvolta può anche portarci a non riconoscere chi in effetti c’è, pur conservando giustamente la propria individualità in modo sano, ma rispettando quella di chi ha di fronte (e non spezzando per questo il filo di affetto, empatia ecc) e non riconoscere invece chi non c’è, ma mettere al primo posto il bisogno che ci sia (tanto più forte proprio per la sensazione di costante precarietà, assenza, poca chiarezza o prevaricazione) più che per l’effettivo bisogno dell’altro, di quella precisa persona, piuttosto perché proprio con il suo atteggiamento distante ecc va a girare il coltello nella piaga della nostra paura dell’abbandono. In questo momento, Margot, tu vedi solo quello che lui può, in parte anche idealizzandolo, e non vedi invece le tue possibilità. anche tu puoi benissimo costruirti una relazione molto molto più sana di questa, basata sulla parità, il progetto e un reciproco esserci, non solo emotivamente e sentimentalmente, ma anche nelle piccole cose di tutti i giorni. Dico in parte idealizzando le possibilità di lui e il suo futuro non solo perché il futuro non lo conosciamo, ma anche perché ti posso assicurare che chi legge da fuori la sua impostazione nei rapporti con gli altri che tu racconti ha credo parecchie difficoltà a immaginare che un uomo come quello di cui parli, con i suoi presupposti, possa realizzare davvero una “famiglia cuore” che, forma a parte, mettendo anche che possa esserlo nella forma, sia serena nella sostanza. Per esempio nel tipo di valori da trasmettere ai suoi figli. Seriamente, al di là del fatto che non vuoi che lui non ti scelga (cosa che sembra quasi più forte del “vorrei che mi scegliesse”) lo vorresti DAVVERO un uomo così come padre dei tuoi figli? Forse ora ti è difficile rispondere in modo lucido a questa domanda (istintivamente lucido prima ancora che razionale) tanto hai idealizzato un vostro concetto di possibile condivisione, per il terrore del rifiuto e dell’abbandono ecc, e tanto poco hai in realtà condiviso (e non solo per il fatto che la vostra storia sia stata clandestina, ma anche per il suo stesso modo di rapportarsi con la reale condivisione… ho l’impressione che con alcuni miei amici maschi che non mi sono amanti nè morosi, e che hanno la loro vita e anche poco tempo oggettivo condivido molto di più, pensieri, visione della vita, sensazioni, anche momenti di reale affetto e appoggio di quanto tu non abbia fatto con questa persona) che tu abbia perso il parametro di ciò che significa realmente condividere (che siano 10 minuti o 10 ore), cosa siano l’esserci rispetto al non esserci, il sapere di poter contare emotivamente su un’altra persona, il non aver paura di dire cosa si prova per timore di scatenare reazioni negative o di vedere
manipolate le proprie parole…
Io non lo so se costui è un mostro manipolatore, ma quello che vedo è che questa relazione ha su di te un effetto… mostruoso. Non nel senso che tu diventi un mostro, ma che questa relazione ti logora, ti implode, ti manda in angoscia, ti fa stare male.
Credo che possa capitare anche in una relazione con una persona impegnata che non sia una manipolatore o un molestatore morale che la persona possa dire: scelgo di tornare “a casa” o “scelgo di stare solo a casa e di non avere più vite parallele”, che possa dirlo anche in un modo non mostruoso. Ciò non significa che sentirselo dire non faccia male, molto male, ma può succedere anche in relazioni meno disfunzionali di quella che racconti che le persone si lascino, per varie ragioni, o come dicevo. Purtroppo la vita non è sempre giusta, anche se a volte si può pure scoprire che ciò che al momento ci è parso ingiusto si è rivelato invece liberatorio, persino salvifico, qualcosa che ha dato spazio in realtà a qualcosa di molto più compatibile, sano, positivo che giungerà in seguito. Anche un migliore rapporti con se stessi da costruire, in primo luogo, prima ancora che con una persona che stia fuori da sè. Ecco perché, in un mondo in cui purtroppo non possiamo pretendere di essere esenti da frustrazioni, poiché non possiamo controllare il mondo o la testa degli altri, forse volersi bene significa anche imparare per noi stessi un modo diverso, nuovo, non necessariamente distruttivo di affrontare la frustrazioni. In questo modo forse possiamo anche uscire dal circolo vizioso che può altrimenti portarci, come tu descrivi, a scegliere o vivere o subire delle frustrazioni nel nome del terrore di non essere in grado di affrontarle (di contare su di sè, prima ancora che sull’esterno) o nel nome del terrore di una frustrazione ancora maggiore. Persino quando questa, di fatto, potrebbe non esistere. Nel senso che c’è pure la possibilità, uscendo dall’ottica del terrore dell’abbandono come primo motore di scelta o perseveranza, che una storia che finisce, indipendentemente da chi dei due ha messo per prima la parola fine, non significhi necessariamente dover star male o ridursi in stato larvale ecc.
C’è una cosa che forse non consideri e cioè che può persino essere successo che mentre la tua parte terrorizzata dall’abbandono ha continuato a sbattere la testa e il cuore (ma secondo me, scusami, più la testa e l’angoscia che il cuore… per il fatto che tutto sommato penso che il cuore lo sa che ha bisogno di nutrimento per sentirsi realmente innamorato, e non di una dieta emotiva sconclusionata e nociva) contro le dinamiche di quest’uomo, il suo carattere, la situazione che ti ha posto, può essere accaduto che una parte di te lo abbia invece sempre saputo che neanche tu riuscivi veramente a pensare che stare con lui, sul serio, mettere su famiglia sarebbe stata una grande idea. Al punto da farti “abbandonare”, cioè farti lasciare libera. E che tu abbia avuto culo!
@LUNA :E se la persona che subisce molestia morale è la prima ad avere difficoltà a riuscire a dire: questa persona ha dei problemi seri, questa persona effettivamente mi sta agendo violenza…
la persona che subisce la molestia morale può essere la prima a tentare di dimostrare che tutto sta andando bene, per proteggere se stessa da quanto stia invece andando male. cioè dal male che ciò fa.
Esatto. Io ho sempre passato il tempo a trovare dei motivi per il suo comportamento. Mi sono sempre scusata ogni volta che ho detto che non stavo bene nel rapporto e lui mi ha rimessa al mio posto. Cosa mi ero messa in testa? Cosa sta tuttora cercando di minare la mia coscienza, il mio istinto di sopravvivenza? L’idea di poterlo appagare, l’idea di poter fare in modo che si sentisse amato e non più solo visto che c’ero io che ero totalmente per lui. Che assurdità! Lui mi ha sempre guardata e vissuta attraverso un filtro pieno di cacca. La spiegazione è che ha avuto un’infanzia brutta, molto brutta e io pensavo di poter rimediare alla sua infanzia dandogli un presente sereno e un futuro pieno di amore. Con questa intenzione l’ho accudito e amato e ogni volta che non sono stata all’altezza delle sue esigenze, mi sono sentita incapace, inutile. Perdipiù me lo ha sempre detto in faccia: “tu non vali niente” “chi credi di essere per chiedermi dove vado!” “non mi hai portato niente” “hai sempre le tue crisi che devo sopportare” Lui parla di crisi, ma il mio istinto di sopravvivenza che mi esortava a scappare. Io lo mettevo a tacere quell’istinto e incolpavo me stessa delle frustrazioni del mio compagno. Dove sbaglio?, perchè non riesco a spiegarmi. Perchè il mio amore, che mi costa tante energie, per lui è inesistente? Perchè io non valgo abbastanza per lui? Perchè??
Mi rendo conto che bisognerebbe sentire anche la sua versione dei fatti, (e anche qui secondo me sto cercando di difenderlo e giustificarlo), per questo gli ho chiesto più volte di venire a fare un percorso dal terapeuta con me. Mi ha sempre risposto “Io non vado a farmi dire cosa sbaglio da uno che crede di sapere tutto solo perchè ha un titolo di studio”. Quante volte ha insultato l’intera categoria degli psicologi solo perchè io mi sono fatta aiutare da uno di loro. Aiutare a guardarmi dentro, aiutare a guardare intorno a me e a prendere atto che io non sono la merda che dice lui. Ancora oggi è molto difficile staccarmi dall’idea che mi sono fatta di me stessa. Mi chiedo se magari non fossi stata troppo debole per perorare le mie cause personali nella coppia. Come quando avrei voluto terminare gli studi, mi mancava un anno alla laurea e avevo tutto pronto, dovevo solo iscrivermi. Mi ha trattata come una puttana che andava alle scuole serali (università corso di laurea con obbligo di frequenza: studentessa lavoratrice) solo per conoscere qualc’unaltro. Ha sputato sulle mie capacità e sulle mie attitudini ed ha espresso tutto il suo disprezzo per le persone che hanno un titolo di studio. ERA AMORE??
Leggo e rileggo i vostri interventi, Margot, Clà, Eme…Luna.
Penso alla mia storia e al fatto che qui, nelle vostre, trovo importanti spunti di riflessioni e trovo anche un criterio per riordinare me stessa. Metto in pratica a fatica, sono lenta e sono spaventatissima all’idea di fare il salto. Poi non c’è ritorno e, sebbene riesca molte volte a vedere la salvezza nel salto, mi martella in testa la solita domanda: ho mollato troppo presto? ho gettato la spugna quando ancora avevo una possibilità di dare concretezza alla famiglia abbozzata? Mi chiedo fino a che punto bisogna perdersi per salvare qualcuno? e nello stesso tempo, fino a che punto cambiare per adeguarsi alle esigenze di qualcuno? Voglio dire, se il tuo compagno si ammala e ha bisogno di assistenza continua…non lo lasci, ti sacrifichi e ti impegni per stargli vicino a dare sostegno e conforto. Ma se la malattia è comportamentale, se tutte le volte che offri il tuo aiuto ti ritrovi persino ad implorare che il tuo aiuto venga accettato. Ma puntualmente viene respinto! Poi a distanza di tempo vieni accusata di non aver aiutato. Se la malattia non è riconosciuta se non in sporadici momenti di disperazione (quando tu decidi di mollare), ma poi rinnegata prontamente. Se l’alcolista ti accusa di essere la causa della sua incapacità di dire di no alla bottiglia? ? ? ? Abbiamo il diritto di dire BASTA senza sentirci insensibili? senza pensare di esserci arrese invece di combattere per il nostro amore?
Io ho sperimentato quanto l’amore sia prosciugabile fino all’aridità totale. Ditemi, è misurabile in termini di tempo la sopportazione della carestia di emozioni e sentimenti verso qualsiasi cosa?
Grazie
Luna, leggerti è un vero toccasana. Se potessi stamperei tutti i tuoi post(e quelli di Eme).
Apro questo sito per scrivere le mie solite paranoie, le solite domande…poi però ti leggo e già di riflesso mi hai detto quello che volevo sentirmi dire, nonostante il post sia “riservato” a Margot piuttosto che a qualcun altro.
Non so come tu faccia a toccare così delicatamente certi argomenti cosidetti taglienti e a maneggiarli con cura rendendoli, appunto, meno taglienti.
Sei una specie di cura.
Grazie di esserci.
ALEBA: io non ho affatto l’impressione che tu sia lenta. Io ho l’impressione che tu stia “lavorando bene”, anche perché accanto alle domande implosive, stai ritrovando lo spazio per altre domande, non implosive. Non importa se in questo momento ancora le une e le altre si mescolano, dentro di te, o nei post. e non importa nemmeno se hai difficoltà a capire se sono le prime o le seconde (quelle che ti chiudono e quelle che ti aprono, quelle che ti fanno pensare al salto, quelle che ti fanno sentire spaventata o in colpa per il salto) a spaventarti di più.
Scusami se sono anche proiettiva per quanto spesso mi rivedo in ciò che racconti e in ciò che ti domandi.
Il fatto che tu sia andata da uno psicoterapeuta per te, per te e non solo per qualcun altro o per la malattia di cui soffre la tua storia, vuol dire molto più che poco. Rappresenta uno scatto che forse un tempo ti sarebbe stato internamente impensabile.
Nessuno ti costringerà a fare un salto, se non vorrai fare un salto. Ma comunque ti sei regalata un luogo protetto in cui riflettere. In cui essere chi sei. Non è poco.
ogni domanda che hai scritto me la sono fatta anch’io. e anche se non siamo uguali per me conosco lo stato d’animo e emotivo con cui ci si pone quelle domande. ed è a questo anche che mi riferisco quando riporto una frase come questa:
“a volte il punto non sta nelle risposte che cerchiamo o ci diamo (o non riusciamo a darci), ma nelle domande che ci poniamo”.
Come ce le poniamo, anche. Sono le domande ad essere “sbagliate”. Sono quelle domande ad incastrarci. Perché partono da presupposti sbagliati, partono da una situazione malata e si nutrono di una logica limitata a cui si è ormai assuefatti. Non sono molto brava in matematica, ma potrei dire che queste domande e l’intelligenza e la sensibilità che ci sono, eccome, e vengono impiegate per “risolverle” finiscono con il creare nel nostro cervello una situazione simile a quella delle lunghe operazioni matematiche in cui avendo sbagliato il primo calcolo, anche se il resto dell’operazione viene eseguita correttamente, si porta avanti l’errore…
Non riesco a spiegarmi bene, vero, purtroppo?
Io me le sono fatte tutte le domande che ti fai. Posso dirti che il motivo per cui sono riuscita a non vederle come le sole domande e logiche possibili è che ad un certo punto mi sono resa conto di dove stava quell’errore… di calcolo iniziale.
Non è che un mattino mi sono svegliata e avevo tutte le risposte e certe domande sbagliate erano evaporate tutte via. Non è così nemmeno oggi. Ma qualcosa era ed è cambiato. Come riaprire la testa e la percezione ad una visione meno limitata, anche di sè. Farsi persino le stesse domande ma non in uno schema ristretto A-B, solo con delle risposte, per quanto multiple, ma pur sempre chiuse. Tra senso di oppressione versus senso di colpa, senso di diritto versus resa/mancanza di sensibilità…
Abbiamo il diritto di dire BASTA senza sentirci insensibili? senza pensare di esserci arrese invece di combattere per il nostro amore?
Io ho sperimentato quanto l’amore sia prosciugabile fino all’aridità totale. Ditemi, è misurabile in termini di tempo la sopportazione della carestia di emozioni e sentimenti verso qualsiasi cosa?
Però forse è alla fine del post che ti sei fatta una di quelle domande non implosive, che non sono neppure domande, ma considerazioni.
Forse basta la parola CARESTIA a descrivere un mondo.
Quanta fatica fa, ogni giorno, ogni secondo, Aleba, per com’è Aleba, per com’è realmente, non per amore, ma per riuscire a vivere in una costante carestia? per mozzarsi non solo l’università, ma parti di sè come se si tagliasse le mani, i piedi, falange per falange. Per convincersi che c’è qualcosa di giusto nel tagliarsi le mani e i piedi falange per falange per riuscire a stare chiusa in una scatola e dirsi che quello è il mondo, e che quella è lei?
quanta fatica fa, Aleba, ogni volta che un guizzo di vita le scappa fuori, comunque, anche senza che se ne accorga, per ricacciarlo giù, nasconderlo, farlo affogare, affondare per non turbare “un equilibrio” che però non esiste?
e se Aleba la sua sensibilità la “perdesse” (intesa come intelligenza emotiva) proprio mentre si domanda ogni giornose è sufficientemente sensibile visto che non riesce a far resuscitare Lazzaro?
Io le capisco le tue domande. Perché sono domande che provocano un grande dolore. E sono domande che provocano un grande dolore già anche nel momento in cui si finisce con il scrivere “il nostro amore” dove per nostro non si intende nostro di me e lui, ma nostro in senso di MIO. Quell’amore che avrebbe potuto/potrebbe tanto, ma di fatto non può, mai. Chiamiamolo energia vitale invece che amore. Che se fa anche Aleba di una energia vitale che di per sè ha ma che non può esistere, deve vergognarsi di esistere e viene percepita come una minaccia? che insomma non trova ragione neppure nel suo contrario. Perché se vivo ti turbo, se mi spengo ti turbo, e se sto a metà mi dici che sono incolore, nè’ carne nè pesce.
A chi giova?
Stiamo veramente parlando d’amore, dedizione e del loro contrario? stiamo veramente parlando di perseverare nello stare vicino a chi non può, sta male o nell’omissione di soccorso? stiamo veramente parlando di una lotta giusta versus una resa percepita come infame verso i nostri stessi propri valori? sono veramente queste le domande? Non è che il punto non sta lì? Com’è che ci sono delle situazioni in cui si ha l’impressione che ci sia una rinuncia alla propria identità e ai propri valori IN OGNI CASO e sempre, proprio mentre si cerca di esercitare i propri valori? E se esistessero delle situazioni che in un anno, dieci, centocinquanta non possono evolvere in modo diverso per quanto ci distruggiamo a costo di cercare di portare un cambiamento avremmo veramente fatto troppo poco anche dopo centocinquanta anni? avremmo amato troppo poco?
Cara Luna, l’errore sta all’inizio dunque. Il primo calcolo errato, ha compromesso il risultato finale.
“” se esistessero delle situazioni che in un anno, dieci, centocinquanta non possono evolvere in modo diverso per quanto ci distruggiamo a costo di cercare di portare un cambiamento avremmo veramente fatto troppo poco anche dopo centocinquanta anni? avremmo amato troppo poco?”” OK, abbiamo amato male, abbiamo dimenticato di amare noi stesse in primis. Già già.
Scervellarsi per anni per trovare l’inghippo nascosco, mentre il nostro (il mio) errore era chiaro, semplice e fin troppo lampante da risultare incredibilmente evidente. Era sempre lì davanti al mio naso. L’errore è pensare di cercare la conferma che “meritiamo amore” nel prossimo, e ci investiamo smisuratamente diventando ossessive.
Invece nessuno può pensare che lo zerbino meriti di essere amato.
Baci
ALEBA: ognuno sa per sè qual è l’errore iniziale nel ragionamento. O qual è la prospettiva sbagliata anche in cui si è troppo abituato/a vivere. Un errore è anche pensare che sia normale ormai vivere in un mondo emotivo, ma anche pratico, in cui tutto è difficile. Ma non è che necessariamente sia un errore che nasce dentro di noi, può essere anche assuefazione. Il nostro cervello è abituato in realtà a riconoscere dei problemi e a cercare delle soluzioni. Se ho finito il latte vado a comprarlo. Ma se penso che il latte è sparito dal pianeta terra mi posso dimentare che esistono le latterie. Se non centri il problema non trovi soluzioni o trovi soluzioni momentanee per un’infinità di piccoli (e insieme vissuti come mastodontici) problemi momentanei. Se sono sempre teso a risolvere un problema che ne nasconde un altro il mio cervello va in tilt. Va in tilt perché è troppo attento, non per il contrario. Ma le variabili che continuamente gli vengono introdotte lo incasinano. Tanto più se escono dallo schema: problema/risoluzione. Ti faccio un esempio concreto:
se voglio iscrivermi all’università il mio cervello valuta una serie di cose, per esempio, e non necessariamente in quest’ordine: quanti esami mi mancano? a chi devo rivolgermi per avere le informazioni che mi servono? ho i soldi per affrontare le spese universitarie? a cosa posso rinunciare per averli? ho il tempo? come posso gestire la mia giornata per avere il tempo? ho voglia di farlo? sento di avere le mie risorse per farlo? ecc. Un insieme di quesiti pratici e personali che anche si intersecano. Tuttavia domande inerenti alla realtà.
L’università è lì, posso scoprire con che autobus ci arrivo, o se voglio farmi la patente così potrò andarci e prima passare a portare mia figlia a scuola (sto facendo un esempio), posso scoprire se quando non ci vado c’è chi mi può fornire gli appunti. ecc ecc.
Ma se le variabili diventano: il senso di colpa, un senso di inadeguatezza indotto per una paura altrui che se una persona si stima costutuisca un pericolo, l’università descritta come un bordello e la mia voglia di studiare, imparare, fare qualcosa (di sano, oggettivamente nè buono nè cattivo) per me diventa nelle parole di un altro il fatto che io ho voglia di esercitare il meretricio, il problema diventerà: università uguale puttanismo.
E’ un vero problema?
E se il problema è che l’altro non riesce ad accettare che io faccia qualcosa di normale, sano, costruttivo per me e risponde in maniera disfunzionale alla realtà, ma pure in maniera aggressiva, fino a convincermi che io non capisco un c.... o che non sono una brava madre o moglie se prendo un libro in mano (due cose che non c’entrano un cavolo) il problema è mio?
Il problema è che sono uno zerbino e gli zerbini non meritano amore?
A parte che il concetto di “meritare amore” è già un errore di calcolo. Forse perché ormai siamo abituati a considerare che una relazione sia una specie di cosa in cui si vive tesi tra penalità e stellette?
E’ chiaro che in ogni relazione esistono dei compromessi, normali, ed è chiaro che ogni scelta produce un effetto. Tuttavia in una relazione funzionale, pur se ciascuno di noi può avere una sua idea di priorità e una sua emotività, le persone sono alla pari e il concetto di fare/non fare, evoluzione o rinuncia viene comunque considerato in un modo funzionale. “Sto pensando di cambiarmi il turno al lavoro per questo e quest’altro motivo. Cosa importanti per me. (quindi vale la mia emotività ecc). Comporterebbe ciò. Tu che ne pensi? (considero la tua). Come possiamo venirci incontro in questo? Come potremmo organizzarci? Parliamone” è diverso dal dire: “Mi sono cambiato il turno, perché era giusto così, tu attaccati al chez” o “Non posso neanche concepire dentro di me una sensazione che mi porta a valutare l’idea di cambiare turno o succederà la terza guerra mondiale solo perché ho mosso, nei pensieri, una virgola”.
Quanto è pesante, inoltre, incarnare in continuazione i ruoli, anche opposti, che un’altra persona ci cuce addosso?
Donna scialba, lapdancer in aula studio.
Lagna colossale perché ha bisogno di me, stronza colossale perché pare che non abbia bisogno di me.
Donna che ama troppo, donna che ama troppo poco.
Ipersensibile, insensibile.
Donna priva di iniziativa, donna che prende iniziative.
Rompicoglioni che mi dice che ho un problema e non lo risolvo mentre io di problemi non ne ho nessuno al mondo e son perfetto, mostro che mi abbandona pur sapendo che io ho un problema grosso.
Donna priva di ogni attrattiva che me la tengo perché in questo momento non ho un cane e sono troppo buono per rifiutare un piatto di minestra, donna così piena di attrattive anche se è semplicemente se stessa ed esce senza trucco e con un sacco di patate addosso che il primo che passa correndo e le domanda l’ora può innamorararsi di lei e portarla via.
Non hai amici perché sei insopportabile e nessuno ti caga. Hai amici? … Sono sicuramente falsi, vorranno qualcosa da te, o ci esci perché in realtà vuoi fare la puttana.
Esistono situazioni in cui se fai/non fai qualsiasi cosa sbagli. In perenne tensione. Situazioni in cui è proprio quando non sei uno zerbino che arrivano i guai peggiori. E bisogna rimetterti subito a posto e ricordarti che o zerbino o niente. O cioè parte una sequela di molestie morali con i controcoglioni. Peggiore di quando sei zerbino. Quando sei uno zerbino è almeno più facile controllarti perché non hai le energie neanche per alzarti dal divano e se l’emotività e l’ansia ti partono a palla sei una lagna colossale e se invece entri in modalità apatia depressiva non è mica possibile vivere con una persona depressa…
Scusami Aleba se sono stata troppo dura. Ma che lo zerbino non può pensare di meritare amore mi ha tolto il filtro. Perché la questione centrale in questi casi non è l’amore, se pure c’è. Ci sono dei problemi al di là, e sono quelli a fare la differenza. E quelli sono quelli quelli di fronte ai quali si è impotenti.