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Il sogno di Giona

di Alvaro

Giona aveva fatto passare il tempo senza rendersene conto, senza mai capire niente.
Era sulla trentina ma non aveva mai fatto niente di selvaggio, niente di anormale. Aveva soltanto lasciato passare la vita, senza farsi mai del male, senza mai fare del male a nessuno. Non si era mai battuto per una causa né materiale né spirituale. Mai un’esperienza atroce. Mai un vero amico morto in vita sua. Mai una ragazza col cuore spezzato. Era soltanto vissuto nell’illusione che il mondo non c’entrasse con lui. Faceva passare le giornate come se il vivere non fosse che un inevitabile fastidio. Viveva sí, ma non del tutto. Quando la sera si coricava, il terrore lo annegava. Impiegava ore e ore ad addormentarsi, e certe notti si prometteva che il giorno seguente sarebbe stato l’inizio di una nuova vita.
Non è che chissá quali dubbi esistenziali lo tormentassero, ma a volte sentiva di aver perso troppo tempo, di non aver mai fatto niente di degno da ricordare, di non essere per niente speciale. Buono a nulla. Evitó le avventure quando gli si presentarono e non credeva mai alla parola data. Si ostinava a giudicare le persone ma non si faceva coinvolgere nelle loro vite. Credeva Giona a qualcosa?
Se Giona fosse vissuto nei giorni nostri, sarebbe finito in un minuscolo appartamentaccio in un qualche secondario quartiere di periferia, operaio in una fabbrica o impiegato in un qualche ufficio ancora piú grigio dei suoi pensieri. Magari una notte avrebbe sentito dalla finestra il suono di un sassofono in mano a un virtuoso prodigante fra gli orecchi meno degni in un modo inaccettabile per qualsiasi altro con piú alte ambizioni di questo. Avrebbe forse capito che egli non sapeva fare niente tanto bene quanto quello toccava il sassofono e quindi si sarebbe depresso ancora di piú. Forse si sarebbe dato la morte. Se cosí fosse stato, sicuramente sarebbe finito come una piccola necrologica in un qualche secondario giornale di secondaria provincia. Oppure: “Uomo suicidatosi perché implicatosi in un qualche oscuro affare”, avrebbero specolato i giornalisti alla caccia di stupide notizie che acquietassero la fame di morbo e di bruttezza che il popolo necessita per sopravvivere. Non avrebbero intuito, o avrebbero considerato meno rentabile la verità: quell’uomo era morto perché il suono di un sassofono gli aveva fatto capire che aveva semplicemente fallito nella vita.
“Oggi” avrebbe sognato di ascoltare Giona giorni prima da una coscienza superiore, da un ipotetico angelo custode “conoscerai qualcuno che ti fará cambiare vita. Aproffitta l’opportunitá e fatti presente quando il Destino bussi alla tua porta”. Un volgarissimo oracolo degno del peggior astrologo incaricatosi degli oroscopi con degli strumenti inadeguati, carte sbagliate e indicazioni false.
Quel giorno, peró, Giona si sarebbe alzato dal suo letto con l’animo pieno e credente in sortilegi e superstizioni, sarebbe uscito per la strada con un sorriso in faccia. Sarebbe stata una bella giornata di primavera e tutto sarebbe stato a posto. Allora egli avrebbe conosciuto qualcuno capace di diventare la propria metá e la propria meta, di completare ció che a lui mancava. Forse sarebbe stata una bella ragazza a colmare i suoi desideri. Forse un bel ragazzo imprenditore con interessanti proposte da fare. Forse sarebbe stato un grande imprenditore, fidato amico perduto di Giona arrivato dal piú lontano passato. Ma in ogni caso, l’espressione del volto di Giona avrebbe comunicato fiducia ed entusiamo. Giona sarebbe allora andato dal suo superiore in ufficio o dal suo capomastro, e avrebbe presentato la rinuncia. I suoi compagni di lavoro lo avrebbero criticato da imprudente «Non si può» avrebbero sparlato tra di loro «lasciare un lavoro degno come questo in un Paese dove il lavoro per bene non c’è», ma nel profondo delle loro anime lo avrebbero invidiato. Qualcuno che percorreva la strada della perdizione nel senso opposto.
Giona si sarebbe trovato il giorno dopo con colui che, gli era stato auspiciato, gli avrebbe dovuto cambiare la vita. Avrebbero bevuto un paio di caffé in un qualche antico Rick’s e sarebbero forse finiti in un bell’albergo, in un posto meno sordido. Forse avrebbero visitato un bel locale dove avrebbero progettato di installare un bar con molto glamour.
In ogni caso, quella sera Giona avrebbe avuto ancora un bel sorriso in faccia, e avrebbe tardato ore ad addormentarsi. I numeri gli avrebbero danzato in testa, al ritmo delle lancette dell’orologio che in quel momento avrebbe suonato le due del mattino oppure avrebbe forse sognato delle romantiche scene con quella ragazza amata.
Il mattino dopo qualcuno gli avrebbe dato ancora qualche bella notizia. Ancora belle aspettative. Una vita normale gli si prometteva piena di fiori, di bei colori. Un futuro, un capitale, formare una coppia… Chissá.
Le cose si sarebbero precipitate peró verso una non lieta fine…
– Mi scusi – si sarebbe sentito dire da una voce sconosciuta attraverso il telefono- ma lei ha sbagliato numero, da noi non c’è nessuna Bérthe.
– Ma… ¿Lei è certo che quello sia il 92 555 67 54? – Avrebbe risposto Giona- Bérthe disse…
– Ma sí! – Lo avrebbe interrotto la voce al telefono – Mi scusi, signore, si rassegni. Qua non c’è nessuna signorina di nome Bérthe. Arrivederla. – sarebbe finita la telefonata.
Oppure, cercando di consultare movimenti del conto bancario, avrebbe trovato dei bei numeri rossi dove avrebbe dovuto trovare tanti di quei duramente guadagnati quattrini. Il suo lavoro in ufficio, in fabbrica, perso. Un futuro ancor piú nero, e magari il cuore spezzato. È vero che colui che si impegna se la può cavare e può uscire dalle piú nere situazioni. Ma Giona, credente in sortilegi e superstizioni, non avrebbe pensato a questo. Giona avrebbe ascoltato quel dilettante. Quel cupo suono in mezzo alla buia notte, in un oscuro quartiere, in una grigia cittá.
A Giona avrebbe mancato qualcosa… un po’ di volontá magari, un pensiero piú freddo e calcolato, forse. Giona invece si sarebbe ostinato ad ascoltare la musica e si sarebbe fatto trascinare da un torrente di violente e travolgenti passoni di vuoto assoluto e avrebbe dimenticato di essere mai stato felice. La prima lacrima caduta a terra gli avrebbe fatto precipitare nella miseria delle miserie. Avrebbe ricordato la morte del padre. La bocciatura quando allievo della scuola elementare non aveva saputo recitare la filastrocca. Lo schiaffo quando ancora bimbo cercó di baciare Alba. Si sarebbe guardato le mani. Avrebbe stretto i pugni per cercare di darsi forza. Un vuoto in bocca allo stomaco gli avrebbe fatto ricordare la sua profonda miseria e dopo uno sconsolato pianto, singhiozzando, si sarebbe dato la morte in un qualche romantico modo.
Ma Giona non vive nei giorni nostri. Giona campava tra veglia e sonno nel ventre di una balena, e stava incominciando a credere a qualcosa. Non si curava delle alte emozioni che portano alla morte e provava una elevazione mistica.
Incominciava ad affidarsi a Dio.

_____

Scrissi questo racconto a sedici anni, lo presentai a concorso a scuola. Non vinse niente. Ancora non ho capito come mai poichè non lo ritengo troppo brutto.

Son quasi due anni que non scrivo in italiano, mi scuserete se le mie parole scivolano un po’ 🙂

Lettera pubblicata il 23 Gennaio 2006. L'autore, , ha condiviso solo questo testo sul nostro sito.
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Categorie: - Cultura

La lettera ha ricevuto finora 2 commenti

  1. 1
    brezza marina -

    racconto accattivante! soprattutto considerando che l’hai scritto quando eri poco più che adolescente.

    in effetti, scivolose alcune parole, non prive tuttavia di un certo fascino…

  2. 2
    Yog -

    Che premio c’era in palio? Probabilmente non ti eri accorto degli strafalcioni grammaticali, ma tu almeno sei straniero, qui scrivono certi intestini italiani che hai voglia.

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