Affondo il capo
Come lo struzzo
In un mondo che non mi appartiene
Chiudo gli occhi
Ma li sento ancora
I loro borbottii insensati
Di corpi inanimati
In un fresco giardino
Circondata da
Pesci colorati
E petali neri
Su un manto bianco
Di dolci aghi avvelenati
Ho atteso la morte
Osservando
Pigramente
Uno yo-yo
Ritornare sui miei passi
Con il tuo respiro
Ti prego ancora
Amalgama la pasta
Delle mie percezioni
Mi è dolce sentire
La terra sbriciolare
E il vuoto
Affogare
Il cuore stanco
Quanto abbiamo perduto
Di quell’infinito
Sognato
Temuto
Seprato
Sento
L’aria gelata
Che ha il sapore della purezza
E m’ irradia l’animo
Irrompendo nei polmoni
Un esplosione di piacere
L’immersione dei nostri corpi stanchi
In inferni che lacrimano i cieli di velluto
Perché ho l’impressione di vivere meglio quando non respiro?
[“…Già, perchè tu sei un’artista. Ma in fin dei conti che sei? Sei una fallita…”
“…Professore… se adesso mi volete scusare, io andrei in bagno.”]
La verità che non ho avuto la forza di dirvi, professore, è che vi sbagliate. Io non sono affatto un’artista. Non lo sarò mai. Sono solo uno struzzo, stanco, pallido e malato, che ha forse perso la memoria di cosa sia il cielo.
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Categorie: - Cultura
ciao Suchende!
struzzo “stanco, pallido e malato”… che sembra non avere una vera volontà di ritrovare il cielo…
meglio stare a compiangersi e a ricamarci su, da vera artista del dolore!
La tua lettera mi fa pensare al “vestire all’occidentale”. Secondo me si dovrebbe capire una cosa. Esiste nell’uomo un desiderio di partecipazione che incide anche sul gusto. Io ad esempio quando mi sono traferita in Toscana ho capito perché la Bindi, presidente della commissione antimafia, mi comunicava una certa concretezza. Per me è stato difficile scendere dai tacchi… ancora oggi sento come l’esigenza di entrare in questo corpo, ma quando cammino non mi sento esattamente come quando andavo a scuola. Non ho la stessa disinvoltura. La gente del posto non è assuefatta a quella che sostanzialmente non è una moda. Si tratta di un gusto, che a dirla tutta, non comunica la freschezza dei vent’anni. Perché io non mi vergogno di ammettere che dai quindici anni in poi ho smesso d’indossare scarpe da ginnastica (che sinceramente non mi ricordavano neanche vagamente il concetto che evoca la parola “sneakers”… vi sembrano femminili? Sono scarpe da bambina praticamente (o da ragazzo)… mi sembra doveroso ricordarlo anche per tutelare i minori… diventano femminili in un determinato contesto), mi sono sbarazzata del classico zaino modello Barbie avanzato per vestirmi in un modo che non ha niente di provocante. Mettiamocelo bene in testa. Dipende da che punto di vista guardi il mondo. Quasi sulla stessa strada troviamo due licei classici che in quel periodo erano l’espressione di due modi diversi i approcciarsi allo studio delle materie umanistiche.
[…]La distinzione tra classico e moderno si capiva dal fatto che nella piazza (o meglio… già a partire dalla fermata dell’autobus) ti sentivi invisibile, cafona o alternativa, a seconda dei casi. Non provocante. Io ad esempio ero diventa amica di un’insegnate di italiano, latino e greco che aveva la figlia che a mala pensa mi salutava. Lei insegnava da una parte e la figlia studiava dall’altra. Il comportamento della figlia mi sembrava naturale. Si trovava immerso in un ambiente diverso dal nostro. Purtroppo esiste anche una parte animale. A New York non vestirei italiano. Poco ma sicuro. Questa retorica ci fa male.